Sono abbastanza
vecchio da ricordarmi quando “riforma” era la parola d’ordine e la
caratteristica principale di quella parte politica di natura socialista che
però rifiutava come irrealizzabile l’idea di una rivoluzione profonda della
società e un superamento della sua struttura capitalista. Più modestamente,
riteneva possibile una moderazione degli egoismi capitalistici verso una
struttura sociale più egualitaria attraverso l’applicazioni di nuove leggi
ordinarie dello Stato. Queste nuove leggi, dovendo modificare la situazione di
rapporto di forze preesistente e abbastanza statica, erano chiamate “leggi di
riforma”.
All’epoca la
struttura sociale era abbastanza definita, ed in Italia il predominio delle
rendite, sia agrarie che immobiliari e finanziarie, e queste ultime erano la
novità, stavano riprendendo il controllo dopo il troppo breve periodo di
sviluppo un po’ selvaggio del dopoguerra, che aveva per un momento portato
certe parti dell’industria italiana a competere con il resto del mondo in
termini di innovazione e ricerca. “Riforme” era quindi una parola d’ordine di
sinistra, per quanto moderata, e fatta poi propria anche dalla sinistra più
estrema quando il crollo economico dell’Unione Sovietica dimostrò che
l’abbattimento del capitalismo non era proprio dietro l’angolo, e oltretutto
non tanto auspicabile se fatto tanto per fare.
In Italia le
forze economiche “riformiste” furono sconfitte, con l’intera, o quasi,
imprenditorialità italiana che abbandonò ogni idea di competizione
internazionale in innovazione tecnologica per rifugiarsi nel più rassicurante
utero materno della rendita di posizione e del monopolio statale. Le imprese
produttive in settori tradizionali hanno dovuto fare dei veri e propri salti mortali
per sopravvivere, attraverso innovazioni di struttura originali ed apprezzate
anche all’estero, ma finendo inevitabilmente per doversi scontrare con la
concorrenza dei paesi emergenti, il loro basso costo del lavoro e i minori
controlli di qualità. Il risultato lo vediamo oggi.
Ma il mondo
andava avanti indipendentemente dai desideri degli imprenditori italiani, e la
natura stessa del capitalismo portava verso una sempre maggiore globalizzazione
delle sue strutture. Aiutata da “apprendisti stregoni” in pieno conflitto di
interessi, la liberalizzazione globale della finanza ha iniziato a ridurre,
fino a farle scomparire, le singole capacità nazionali, già deboli in proprio,
di controllo sull’aspetto finanziario, e di conseguenza su quello industriale
locale. La conseguenza è il mondo in cui viviamo ora, in cui sembra che per
poter continuare a sopravvivere bisogna rinunciare a molti dei livelli di
civiltà comune faticosamente conquistati negli anni precedenti.
Ma anche questa
rinuncia forzata viene chiamata “riforma”, e ritenuta indispensabile per la
sopravvivenza della struttura sociale attuale. Solo che se mentre prima si
volevano fare riforme in nome di un ideale di maggior uguaglianza, ora le
attuali riforme servono solo a mantenere, ed inevitabilmente aumentare, le
differenze economiche tra i diversi ceti sociali (non uso il termine “classi” a
ragion veduta, ma di questo aspetto ne dovrò riparlare).
Oggi, per le
prossime elezioni politiche, Mario Monti, il candidato che sarebbe stato
considerato il “candidato conservatore” per eccellenza nei due secoli
precedenti, si permette di definire “conservatori” Vendola, il rappresentante
di una sinistra tutto sommato molto moderata, la Camusso, segretaria del più
grande sindacato italiano, e Fassina, responsabile economico del Partito Democratico,
partito accusato da molti di essere troppo moderato.
Monti si
considera “riformatore” semplicemente perché vuole cambiare le regole
esistenti, indipendentemente dal fatto che sia per una maggiore equità sociale
o meno.
Non si rende
conto che rafforzare i rapporti di forza tra ceti sociali già in atto, aiutare
i forti ad essere più forti e rendere i deboli più deboli, anche se comporta
una modifica delle regole esistenti, non è né può essere mai considerata una “riforma”,
ma sempre e solo una “conservazione".
Se poi lo si fa
anche sotto il patronato della forza più conservatrice al mondo, sopravissuta
indenne e sempre potente a più di 2000 anni di storia, e sto ovviamente
parlando della Chiesa Cattolica, non ci possono essere più dubbi di chi sia il
vero “conservatore”.
Sembra stiano rinascendo i partiti del tempo di Ghirigiz
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sono pur sempre cicli storici che si ripetono...
RispondiElimina;)